Società

Il valore del lavoro

“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, questo è l’articolo primo della nostra Costituzione. Quindi sul fatto che il lavoro sia un valore non dovrebbero esserci dubbi di sorta.

6 luglio 2020 8 minuti
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“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, questo è l’articolo primo della nostra Costituzione. Quindi sul fatto che il lavoro sia un valore non dovrebbero esserci dubbi di sorta.

Ma che TIPO di valore è quello che oggi attribuiamo al lavoro?

Come costruire un concetto di valore del lavoro ora che ci aiuti a superare in futuro quello che sembra essere solo l’inizio di un tempo di recessione di dimensioni ancora non valutabili?

Prima di cercare di immaginare una risposta efficace a questa domanda conviene andare indietro nel tempo e ripercorrere le tappe concettuali che ci hanno condotto all’oggi.

Il concetto di lavoro cambia col mutare delle epoche e assume sfumature diverse, personali, anche a seconda di chi lo vive: l’idea di lavoro di un contadino agli inizi del ‘900 non ha niente a che vedere con quella di uno startupper dot-com della costa ovest degli Stati Uniti ma neppure con quella di un contadino di oggi. Cosa rimane oggi del concetto di fatica e sacrificio che un tempo era legato a quello di lavoro? In una parte statisticamente piccola ma rilevante e crescente delle occupazioni della popolazione mondiale la pura e semplice fatica si è trasformata in stress.

Il lavoro inteso non solo come mezzo di sostentamento ma anche come fonte di realizzazione personale è un’idea che appartiene alla modernità.

Cosa è rimasto, dopo gli anni della grande crisi economica, del sogno, peraltro recente, moderno, di un lavoro che ci aiutasse ad esprimere noi stessi? Una maggior indipendenza emotiva dall’idea di sicurezza che aveva permeato le vite dei nostri genitori ma anche, forse, un maggior cinismo verso i luoghi del lavoro, un minor entusiasmo nell’affrontarne le sfide collettive, una spinta individuale al successo personale che sfilaccia gli sforzi di team.  

Che impatto ha avuto l’emergere del lavoro immateriale, su quello che è il valore del lavoro?

L’affermarsi di quello che è stato identificato come Capitalismo Cognitivo dai ricercatori francesi della Sorbona alla fine degli anni ’90 ha stravolto i parametri che delimitavano il concetto di lavoro e quindi anche quelli del suo valore.

Il lavoro ha assunto una dimensione nuova, distante dalla produzione, definita immateriale e i suoi atout sono diventati del tutto teorici, strategici: Innovazione, Brand e Flessibilità.

Dove per innovazione si intende la capacità di fare novità per essere perennemente un passo avanti alla concorrenza; per flessibilità si intende la velocità nel sapersi adattare continuamente alle richieste del mercato, spesso con costi sociali alti.
Mentre i Brand, con la delocalizzazione delle produzioni, si sono ritrovati ad essere, per un certo periodo, l’ultimo vero patrimonio di quello che fino a poco tempo fa veniva definito come Primo Mondo, cioè l’occidente industrializzato.

La produzione di beni materiali è sembrata diventare, paradossalmente, un accessorio.

Quasi demonizzata per il giudizio di impatto ambientale che la accompagna e sfuggita per via degli alti investimenti che comporta a dispetto della ricchezza che genera. Chi lavora alla produzione di beni e non di idee si trova in fondo alla piramide di creazione di valore attraverso il lavoro, diciamo che questo vuol dire che spesso chi lavora fisicamente alla produzione di merci “banali” (ma comunque indispensabili) vive in relativa scarsità di potere d’acquisto. E lo stesso dicasi per chi lavora nella filiera della distribuzione delle merci, che siano acquistate in un punto vendita o on line poco cambia.

La merce fisica ha perso moltissimo del suo valore negli ultimi decenni della storia umana e la scoperta della possibilità e dei vantaggi economici (nel breve termine) di questa svalorizzazione ha creato contemporaneamente una maggior diffusione e distribuzione delle medesime ma anche una maggior povertà con il lavoro, cioè povertà diffusa anche fra persone che lavorano più o meno regolarmente, quindi un minore potere d’acquisto complessivo: il classico circolo vizioso che strangola le possibilità di crescita a lungo termine dell’economia reale.

In un’ottica di auto consumo così esasperata delle cose ma anche delle idee, ben presto pure i frutti del lavoro immateriale hanno cominciato a perdere smalto insieme alla loro capacità di produrre valore aggiunto, quindi ricchezza.

Collegata alla svalorizzazione delle merci fisiche infatti anche l’arena, ormai sovraffollata, del lavoro immateriale, basato sulla conoscenza che produce idee e strategie, si è trovata presto in un momento di crisi, perché la catena di svalorizzazione è come una reazione in un reattore nucleare: una volta innescata se non è moderata non si ferma.

In questo scenario anche le competenze per produrre idee di valore si sono frammentate, creando una situazione di dumping in cui le specializzazioni a monte della produzione come analisi, strategia di posizionamento e creatività, hanno perso importanza a vantaggio della consegna di un prodotto finito al più basso costo possibile.
Insieme alla diminuzione di queste specializzazioni sono diminuite le capacità di collaborare in gruppo creando team coesi che sappiano competere insieme per un obiettivo comune, tutto questo è stato rimpiazzatato dalla competizione sul ribasso dei costi e dalla capacità di affabulazione che ha vinto, solo temporaneamente, ne siamo certi, sull’esperienza pratica e teorica.

É su questo scenario, già impoverito idealmente e materialmente nei suoi elementi fondamentali, che si abbatte la crisi di questi tempi.

Da questa crisi, come da ogni crisi, ArteficeGroup pensa che si esca investendo. Fermando la reazione a catena della svalorizzazione, contribuendo ad una nuova idea di valore del lavoro, che sia basata sul concetto di responsabilità nella creazione di ricchezza per tutti.

Quello che serve, a nostro avviso, è un’etica del lavoro che ristabilisca il concetto di giusto prezzo per il prodotto finale, un prezzo che contempli tutte le competenze per un lavoro ben fatto. ll giusto prezzo è in ultima analisi la misura del valore di un prodotto: l’idea che ad un prezzo stracciato si possano ottenere prodotti eccellenti è illusoria e genera povertà ideale e materiale. Il prezzo troppo basso, il prodotto di una flessibilità totale, non è etico. Il giusto prezzo, per contro, fa parte di un’etica del lavoro ancora tutta da ricostruire.

Un’etica che valga sia per i frutti del lavoro fisico che immateriale, perché è comunque è TUTTO lavoro, sforzo di umani, composizione inscindibile di diritto e dovere.

Che si tratti della fabbrica di Espoworkr con la totale matericità dei suoi output, le sue competenze di produzione nel settore di Retail and Exhibit o del laboratorio concettuale di analisi, strategia di posizionamento e creazione di piani di comunicazione omnichannel di Artefice People & Brand o ancora delle straordinarie competenze di MAD-E nella ideazione e finalizzazione di progetti di packaging orientati alla sostenibilità, l’obiettivo è sempre lo stesso: restituire valore al pensiero a monte del processo, quello necessario a dare spessore alla esecuzioni a valle.

ArteficeGroup si riconosce nella definizione di Impresa di Comunicazione, cioè nella volontà di investire concretamente nella produzione di idee.
Crede nella possibilità di produrre valore senza lo sfruttamento di chi lavora: il numero delle persone che un’agenzia mette a disposizione del cliente, la qualità della professionalità di queste persone, le ore lavoro che investe in ogni progetto, la determinazione a lavorare facendo team fra agenzia e cliente, il coraggio della propositività di pensiero non convenzionale e innovativo, l’ambizione di fare sempre il miglior lavoro possibile, la specializzazione verticale delle risorse coinvolte, le competenze acquisite negli anni, attraverso l’integrazione di talenti nuovi, attraverso l’impegno nello sviluppare la cultura della propria squadra, la continua osservazione di scenari in mutamento vanno riconosciuti come elementi discriminanti.

Questi sono tutti fattori che contano e raccontano il nostro impegno dentro l’Impresa di Comunicazione, insieme alla capacità di rimboccarsi anche fisicamente le maniche.
Sono elementi che andrebbero valutati seriamente prima di scegliere un partner per rilanciare la propria marca, con lo sguardo rispettoso di un imprenditore che ne valuta un altro e si riconosce.

Andrebbe pure, a nostro avviso, considerata la capacità di coprire tutto il percorso che porta dalla teoria alla pratica nella concretizzazione delle idee mantenendo intatta la coerenza.
Perché da sola la teoria rischia di scontrarsi con la concretezza a volte poco negoziabile del passaggio dallo stadio di ideazione a quello di produzione, mentre la pratica lasciata a sé stessa è spesso poco visionaria e conduce a operazioni tattiche, nelle quali, a livello di decisioni concettuali, l’azienda si ritrova da sola a fare scelte, partendo da punti di vista esclusivamente interni.

In definitiva quello che dovremmo auspicarci, per una futura, rapida e collettiva uscita dalla crisi è il riposizionamento sullo stesso piano del valore del lavoro di chi produce beni materiali e immateriali, il riconoscimento reciproco dell’impegno comune, la riscoperta di quel quid di fatica e impegno che nobilita il lavoro e che va riconosciuto.
E soprattutto la consapevolezza che i momenti difficili non si superano da soli ma insieme.  
Con una partnership capace di consulenza teorica e di azione pratica.