Social media e comunicazione
Dal successo alla catastrofe del POTUS sui social media, alcuni spunti di riflessione per la […]

Dal successo alla catastrofe del POTUS sui social media, alcuni spunti di riflessione per la comunicazione on line.
Prendiamo spunto da un fatto clamoroso di questi ultimi tempi, cioè il bando del Presidente degli Stati Uniti da pressoché tutte le piattaforme social del mondo, per tentare una riflessione sul come le pratiche di espressive generate dalla rivoluzione digitale stiano sfidando, ormai da tempo e senza finire ancora di sorprenderci, tutto quello che davamo per scontato di sapere sulla comunicazione ma anche sull’identità.
Questo evento presenta comunque la possibilità di considerazioni interessanti per tutti: politici e istituzioni ma anche aziende e marchi o persone private. Considerazioni che vanno al di là del giudizio sull’evento all’origine del bando e sul bando stesso, che sono, giustamente, di segno opposto a seconda delle convinzioni di chi le esprime.
Il ragionamento che ci interessa si concentra sulla potenza che la comunicazione può raggiungere sui social network. Si tratta di riflettere sul potenziale gigantesco, che il Presidente degli Stati Uniti, ha attivato esponendosi direttamente e utilizzando gli stessi mezzi della massa a cui si rivolge e che è riuscito, fino ad un certo punto, a sfruttare in maniera fenomenale per poi rimanere stritolato dalle conseguenze di quella che, in linguaggio marketing, definiremmo come una call to action senza precedenti.
L’uso, pur discutibile, che Donald Trump ha fatto di questo gigantesco potenziale, dimostra che è riuscito, da solo, in maniera istintiva, non mediata da nessuno staff dedicato (non che non l’avesse, ma ne ha sempre ignorato i suggerimenti), ad aggregare la più imponente e coinvolta community di fan che il mondo abbia mai visto.
Il risultato di questo fai-da-te è sotto gli occhi di tutti.
E nessuno potrebbe definirlo un successo.
Perché è culminato in una catastrofe: un’estromissione attraverso un atto di forza da parte dei social network stessi, un’azione che non andrebbe definita tanto come una censura quanto come auto-tutela, un allontanamento repentino da una reputazione devastata (quella del Presidente) che aveva raggiunto livelli di tossicità insostenibile. Una fuga lontano da lui per proteggersi dalle conseguenze legali dell’uso che aveva fatto di queste piattaforme.
É vero che la comunicazione del POTUS si è servita anche del supporto di canali tradizionali e generalisti. Fox News in particolare ha contribuito all’inserimento dello storytelling presidenziale sulla narrativa, preesistente presso vaste fasce del suo elettorato di un deep state composto da un’élite democratico-globalista tecnologica e finanziaria che controllerebbe il mondo secondo i suoi scopi perversi.
Ma nel caso della comunicazione generalista non sussiste la necessità di bandire nessuno chiudendo profili personali: in tv si viene invitati o no, dai giornali si viene intervistati o no.
I media tradizionali non ci danno la possibilità di twittare o di postare a nostro piacimento quello che vogliamo, in qualsiasi momento del giorno o della notte a nostra discrezione su un profilo nostro. Possiamo certamente essere banditi anche dai media tradizionali, ma perché questo accada non è necessario che qualcuno blocchi la nostra libertà di parola con un’azione censoria ad alto impatto emotivo e simbolico, come la chiusura del nostro profilo.
Essere banditi dai media tradizionali è apparentemente meno violento: è sufficiente che i suddetti media decidano di ignorarci, di NON parlare di noi, non serve che qualcuno ci imbavagli per farci tacere.
Sui social invece quando scatta il bando serve il blocco, il bavaglio.
E già questa è una differenza che fa pensare: le conseguenze di una comunicazione sbagliata qui sono particolarmente più pesanti. Perché nel bene o nel male episodi ad altissima attenzionalità sono destinati a diffondersi in maniera esponenziale ed è impossibile fermarne la circolazione.
Fra i fattori che rendono delicata la comunicazione su questi mezzi c’è un’ambiguità di fondo che caratterizza questi media e che nasce in primis dal fatto che i padroni di questi mezzi non sono sottoposti alla stessa legislazione che regola le responsabilità delle attività editoriali.
Diciamo che i gestori delle piattaforme dei social vivono in una situazione di privilegiata irresponsabilità rispetto ai contenuti che appaiono sui loro media, soprattutto se paragonati agli editori dei media classici.
Del resto più dinamico e moderno è il media più complessa diventa la legislazione che sanziona eventuali conseguenze di approcci editoriali poco etici, un giornale, mezzo statico e storico per eccellenza, ha responsabilità editoriali più chiaramente attribuite di qualsiasi altro media.
Dunque: chi è responsabile di quello che viene pubblicato su una piattaforma social, visto che i contenuti sono generati dagli utenti?
I dipende sono molti: se io, individuo privato, pubblico un post, magari corredato di documentazione visiva, di un’azione contraria alla legge da me commessa la polizia postale viene a cercare me, se pubblico l’evidenza di un’azione illegale commessa da qualcun altro andrà a cercare quel qualcun altro.
Ma cosa succede quando il contenuto editoriale complessivo di un determinato profilo finisce, dopo reiterate incitazioni, a provocare un evento criminale individuale o di massa?
Chi è responsabile? L’istigatore certamente, ma diventa probabile che la proprietà della piattaforma stessa si ritrovi in qualche modo coinvolta in contraccolpi sgradevoli a livello di reputazione e forse, di tipo legale. Ma se anche non ci fossero problemi legali resta la questione del danneggiamento della reputazione che è altrettanto temibile.
Del resto le carenze legislative caratterizzano fin dal loro esordio le attività prima su Internet, poi sul web e ancora successivamente sui social.
A proposito degli eventi di Washington però anche la super-libertaria Electronic Fronier Foundation definisce il ban di Trump dai social come un’azione notevole e tardiva soprattutto considerando il fatto che il Presidente fino a quel momento era stato considerato esente da ogni azione di moderazione.
E proprio il concetto di moderazione è un altro ambito di ambiguità su cui riflettere: resta ancora un concetto molto vago. Per moderare serve un moderatore con capacità di discernimento sofisticate quali al momento solo una mente umana produce. Per ora questa funzione è assegnata dai grandi social network agli algoritmi. Ma gli algoritmi sono sufficienti a garantire la correttezza dei messaggi pubblicati sui social?
O sono solo un ottuso baluardo che filtra inezie innocue e lascia libere di agire vere bombe sociali in grado di provocare la perdita di vite umane? Una foglia di fico inadeguata a fingere di ricoprire, anche solo minimamente, il gigantesco e mostruoso compito di controllare milioni di miliardi di conversazioni, di dichiarazioni e di re-posting che avvengono contemporaneamente in tutto il pianeta continuamente?
Fra gli ambiti ancora poco definiti di questi media, proviamo ad analizzare ancora un altro fattore, questa volta più personale: la grande difficoltà nel percepire il fatto inconfutabile che i social hanno dei padroni. In teoria lo sappiamo tutti che Facebook è di Zuckerberg e Twitter è di Dorsey, però un conto è saperlo a livello di informazione razionale e un altro è esserne consapevoli a livello emotivo.
Quando pensiamo ai nostri profili social pensiamo a qualcosa di profondamente nostro, li esprimiamo i nostri pensieri, pubblichiamo le nostre foto, li ci sono le informazioni su di noi che abbiamo (più o meno consapevolmente) deciso di condividere, i meme o i post altrui che abbiamo scelto di far circolare.
Quasi nessuno sente a livello profondo che questo insieme di dati non è più suo, che è di proprietà di qualcun altro. Ognuno sente di essere quel profilo.
Questo aspetto di diario personale ma pubblico (scusate l’ossimoro) spiega l’uso scellerato e autodistruttivo che ne fanno alcuni, torniamo ad esempio a quelle persone che li usano per vantarsi di azioni che di fatto sono reati, magari pubblicando anche video che immortalano gli infelici gesti. In teoria costoro dovrebbero essere consapevoli delle conseguenze di questi post, in pratica c’è sempre qualcuno che continua a farli e a pagarne le conseguenze. E, anche senza arrivare a questi estremi, è molto frequente che sui social ci si permettano exploit di aggressività inconsulta o sfoghi ad alto impatto che difficilmente avverrebbero di persona e che comunque influenzano malamente la reputazione personale presso la propria cerchia di conoscenze.
Quindi evidentemente questa consapevolezza profonda non è poi così semplice da raggiungere.
Il punto è che questi mezzi che sembrano essere parte integrante della nostra vita da sempre in realtà ci sono da relativamente poco tempo, soprattutto se misurato in base a quello preso dall’evoluzione umana, e sono mezzi che si appellano fortemente alla nostra parte più istintuale e meno mediata dalla razionalità, spesso i social più popolari sono il regno dell’amigdala, del cervello rettile cioè della parte più preistorica del nostro sistema nervoso centrale, semplice, inconscia, istintiva.
Laddove invece i social sono un luogo complesso perché denso di contrapposizioni fra concetti opposti: é sempre fra gli opposti di pubblico e privato, solitudine e interazione sociale, reputazione di fronte alla collettività e libertà individuale, realtà diretta e interazione mediata dalla tecnologia, responsabilità e svago che va cercata la misura di una comunicazione sana e vantaggiosa su questi media.
Il fatto che si appellino alla nostra parte più inconscia da una parte e richiedano una enorme dose di razionalità per essere utilizzati bene dall’altra, rende la ricerca di un equilibrio tutt’altro che semplice. L’ironia della battuta che definisce i social come il luogo dove riusciamo a dire a 700 persone quello che non abbiamo il coraggio di dire ad una riassume perfettamente questo paradosso.
Inoltre quello che succede sullo schermo di un computer o di un cellulare, attraverso una piattaforma social aumenta la difficoltà di distinzione fra virtualità e vita vera, smarrendo a volte il senso a svantaggio del piano di realtà.
Piano di realtà che viene messo alla prova anche dalla apparente personalizzazione di un messaggio (magari di una figura o di una marca nota) che arriva direttamente sul proprio profilo: se il Presidente della Repubblica parla in tv a reti unificate sta parlando a tutti, quando il suo messaggio arriva direttamente proprio sul mio profilo, invece, la sensazione che stia parlando direttamente a me è inevitabile, per quanto fallace, e quindi molto più coinvolgente.
Se questi mezzi continuano ad essere nuovi anche se di fatto ormai hanno una certa storia è perché non hanno ancora visto definita una loro precisa identità di strumenti di comunicazione,
si ritrovano ad essere ancora troppe cose contemporaneamente, rimangono a vent’anni dal loro ingresso nella società, totipotenti e indefiniti come qualcosa di appena nato.
Quindi sono un luogo, prima ancora che un mezzo di comunicazione, dove è facile perdere il senso della misura anche perché qui chi perde il senso della misura ottiene più facilmente attenzione.
Ad aumentare ancora la confusione c’è il fatto che in realtà i social sono almeno quattro cose contemporaneamente:
sono la proprietà di qualcuno che in teoria dovrebbe essere responsabile del loro contenuto ma di fatto non lo è semplicemente perché è impossibile esserlo;
sono un pezzo di noi o quantomeno della nostra autorappresentazione identitaria;
sono un media di comunicazione e contemporaneamente sono uno luogo collettivo che premia e punisce allo stesso tempo una comunicazione fortemente attenzionale, istintiva che, proprio grazie al suo successo, può generare sgraditi effetti boomerang, un luogo dover proprio per questo, quando si tratta di aziende, istituzioni o figure istituzionali, il ruolo di una consulenza professionale diventa fondamentale, come il caso di Trump dimostra chiaramente.
I social media sono in realtà il luogo ideale per concretizzare un concetto prezioso che sta alla base della buona comunicazione e cioè la presa di distanza da quello che definiremo inquinamento semantico: inquinamento semantico sono i segni e i messaggi mendaci, privi di etica, che si approfittano della tolleranza (o della compiacenza) altrui e di un malinteso senso della libertà per avvelenare la società e distruggere i meccanismi di rispetto fra le persone che la regolano.
Questo tipo di comunicazione, seppure in un primo momento sembra avere successo perché raccoglie molta attenzione, è cattiva. Non fa l’interesse della collettività ma non fa neppure l’interesse di chi la genera perché ne distrugge la reputazione.
È inquinamento tanto quanto la plastica nei mari e i gas serra nell’atmosfera e per misurarla andrebbe creata una foot-emotional-print che consenta di valutane l’impatto devastante sull’ecosistema emotivo sociale, per cercare di ridurlo, esattamente come si fa per il C02.
Raccogliere la sfida di una comunicazione ecologica ed efficace in un luogo complesso e contraddittorio come i social media è compito di tutti gli esperti di comunicazione.
Inclusi i comunicatori di quelli che non a caso vengono definiti valori di marca, cioè qualcosa che va custodito e protetto.
Raggiungere l’equilibrio fra impatto e sostenibilità dei messaggi di comunicazione è un lavoro delicato, coinvolge una conoscenza profonda dell’identità di marca e dei suoi codici espressivi, la creatività e le competenze per produrre contenuti originali e interessanti ma anche un’attenzione e una sensibilità per evoluzione degli scenari sociali, dei media, dei messaggi.
Si tratta di un lavoro che implica professionalità e attenzione quotidiana verso tutto quello che serve per creare segnali che siano realmente interessanti per chi li riceve: non mero impatto ad ogni costo e neppure banalità ecumeniche che si confondono col rumore di fondo.
E di farlo in coscienza e con senso di responsabilità perché più grande è il potere persuasivo dei media (e abbiamo capito che quello dei social è enorme) maggiore deve essere la cura di chi li utilizza.