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War economy?

La nostra è o sarà davvero un’economia di guerra? Oggi parliamo di war economy. Il […]

calendar 04 Aprile 2022 | calendar 22 minuti
War Economy

La nostra è o sarà davvero un’economia di guerra?

Oggi parliamo di war economy.

Il 12 marzo, a margine del Consiglio europeo tenutosi a Versailles per discutere della posizione comune UE sulla guerra in Ucraina, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha parlato proprio di economia di guerra.
Rassicurando tutti sul presente e sul futuro dell’Unione; Draghi ha spiegato che non vede il rischio di un allargamento della guerra, “lo hanno detto anche i nostri alleati: più pesanti sono le sanzioni e minore è il rischio di un allargamento del conflitto” , naturalmente si riferiva al conflitto militare, perché dal punto di vista economico il conflitto ci riguarderà sicuramente.

La guerra si sta combattendo su vari fronti: quello squisitamente militare che riguarda in questo momento Ucraina e Russia, quello economico che riguarda buona parte del blocco occidentale coalizzato contro la Russia e quello digitale.

Tra vera e propria scarsità di risorse da un lato e spietata speculazione dell’altro, abbiamo, se non altro, un ulteriore fattore (dopo la pandemia) che sembra mettere d’accordo fra i 27 dell’UE.

Il documento prende in analisi il macro scenario, le ricadute economiche italiane relative alla crisi dell’export in Russia non sono state prese in considerazione, in quanto non significative da un punto di vista globale.

I dati e i fatti che riportiamo fanno riferimento fino al 25 di Marzo

Argomenti trattati

  1. Lo scenario internazionale
  2. L’energia e le materie prime
  3. Lo scenario italiano
  4. La filiera agroalimentare
  5. L’impatto sui consumatori
  6. Ricadute sulla marketing industry

1 – Lo scenario internazionale | War Economy

Da una parte tutto il mondo economico e finanziario spera nel piano di pace tra Russia e Ucraina, dall’altra le forze russe che continuano a bombardare le infrastrutture militari e civili ucraine.

L’Ucraina in lotta determinatissima per la sopravvivenza, nel mezzo.

La pandemia (mai sconfitta) ha lasciato l’economia globale con due vulnerabilità:
inflazione elevata e mercati finanziari nervosi. Ora la guerra sta facendo il resto. 

Il certamente non auspicabile crollo dei mercati  finanziari aggiungerebbe quindi un altro ostacolo, colpendo ricchezza e fiducia e rendendo più difficile per le aziende attingere fondi per gli investimenti.

Tra URSS e sentimento imperiale

La mortificazione della Russia, dopo la disgregazione dell’URSS nel 1991, è un fenomeno geopolitico troppo ampio per essere trattato in questa sede. 

Sta di fatto che questo sentimento di perdita ha generato un senso di rivalsa nei confronti dell’Occidente che oggi si trasforma in un problema per l’Occidente stesso.

Il potere delle sanzioni

Le sanzioni stanno facendo esplodere l’economia russa: sono state imposte restrizioni che vanno dal congelamento dei beni all’estero dell’élite, al congelamento degli asset in valuta estera della banca centrale, che avrebbero potuto rappresentare un’ancora di salvezza per la Russia.

Inoltre il paese è stato bandito da ogni rapporto commerciale con gli USA.

E per quanto riguarda l’UE, gli unici rapporti esistenti riguardano l’energia e il petrolio, anche se questi ultimi sono sempre più a rischio a causa della recente richiesta di Putin di ricevere pagamenti in rubli per gas naturale e petrolio, minacciando così di violare i contratti internazionali  in essere.

Il rublo è crollato (e la Russia ha un disperato bisogno che si apprezzi) la borsa di Mosca ha riaperto da poco, con drammatiche perdite,  e il petrolio russo viene scambiato con sconti sempre più alti rispetto al Brent e al WTI.

Le sanzioni colpiscono davvero l’élite?

La risposta a questa domanda è “nì”.

Se ad oggi, da un lato il numero delle imprese sanzionate è di oltre 600, ed il numero di membri dell’élite è di circa 400, non si può però non tenere conto del modo in cui vengono condotti gli affari in Russia (che poi è un retaggio fatto di corruzione della morente URSS).

Il business viene infatti condotto secondo il principio del “krysha”

Un “big man” di un determinato distretto, in genere, paga un boss regionale per ripararsi sotto il suo metaforico tetto,krysha“, appunto, ( e non dissimile dalla matrioska)

Il boss regionale si rifà poi ad un oligarca nazionale che a sua volta paga la protezione a un potente politico. Lo Zar siede all’apice di questo sistema di tetti sovrapposti.

Questo è un sistema utile e flessibile per i regimi di elusione delle sanzioni. 

Quando queste impediscono a un oligarca o un’organizzazione di trattare con l’Occidente per conto del “padrino”, è invece possibile che un tirapiedi non autorizzato possa essere incaricato di farlo

È così che la banca centrale russa potrebbe smaltire parte dei suoi 160 miliardi di dollari in oro sanzionato.

Come risultato, le banche della City di Londra e Wall Street non possono essere sicure con chi hanno a che fare. Questo è anche detto “chilling effect”.

Quindi le sanzioni colpiscono in generale (e gravemente) l’economia russa ma non chi dovrebbero effettivamente colpire.

Le ripercussioni sull’Occidente

In poche settimane, la guerra tra Russia e Ucraina ha già causato uno shock per l’economia globale.

L’aumento mostruoso dei costi legati all’energia e la scarsità di risorse, fattori di instabilità collegati al conflitto ma preesistenti, stanno mettendo in pericolo le filiere produttive di molti paesi occidentali, con il rischio di esacerbare ulteriormente l’inflazione e comprimere la crescita a livello globale (negli USA, l’inflazione nel mese di febbraio su base annua si attestava al 7,9% – numeri che non si vedevano dagli anni ‘80 -).

Di per sé, la Russia è stata a lungo un attore relativamente minore nell’economia globale, rappresentando solo l’1,7% del PIL mondiale, tuttavia il paese (come l’Ucraina del resto anche se in misura minore) è un enorme esportatore di energia  (soprattutto per il mercato europeo) e di altre materie prime come cereali e alcuni metalli.

Ecco perché le sanzioni non sono state finora applicate a tutti i settori produttivi, almeno da parte dei paesi europei.

Focus sull’UE

In questo quadro, i 27 sono indubbiamente i paesi che più subiranno ripercussioni. Di fatto, la crescita dell’UE risulterà “gravemente colpita”, come ha avvertito qualche giorno fa  la Commissione europea.

La maggiore spia è senza dubbio il drastico calo della fiducia degli investitori in Germania, rilevata dallo ZEW (Centro Europeo per la Ricerca Economica) per il mese di marzo: da 54,3 punti di febbraio a – 39,3 di marzo, e non lontano da -49,5 a marzo 2020, tempi in cui infuriava la prima ondata della pandemia.

Achim Wambach, il presidente dello ZEW. ha affermato: “La guerra in Ucraina e le sanzioni contro la Russia stanno notevolmente peggiorando le prospettive economiche per la Germania” (e di conseguenza peggioreranno  anche quelle europee).

Nel mese di marzo, stiamo assistendo ad un’ulteriore impennata dell’inflazione nell’eurozona, che già aveva raggiunto il massimo storico del 5,8% a febbraio.

Una speranza per i paesi UE?

Non più tardi di 15 giorni fa Christine Lagarde, presidente della BCE, ha dichiarato durante un discorso che il perdurare della crisi ucraina potrebbe avere effetti ancor più impattanti per i 27.

Ma ha anche aggiunto che, nonostante tutto, l’economia della zona euro “dovrebbe crescere ancora in modo robusto nel 2022 grazie al minor impatto della pandemia, alla prospettiva di una domanda interna solida ed anche ad un mercato del lavoro solido”.

La Commissione ha avvertito che l’impatto degli shock esterni varierebbe a seconda dell‘esposizione dei singoli paesi all’energia russa, delle loro strutture economiche, dell’ubicazione geografica e del grado di flessibilità delle loro finanze pubbliche.

2 – L’energia e le materie prime | War Economy

Le cause dell’aumento dei prezzi dei beni energetici e di alcune materie prime affondano le proprie radici ben prima che la guerra scoppiasse.

A livello quasi globale, i lockdown, avevano lasciato come eredità l’esplosione della domanda cui era inevitabilmente corrisposto un costante e moderato aumento dei prezzi, per l’appunto.

Ma se per la prima parte del 2021 tale inflazione era definibile come “buona”, in quanto parziale motore propulsore della crescita, nel secondo semestre 2021 e poi con lo scoppio delle guerra tra Russia e Ucraina le cose sono cambiate radicalmente.

Il grave problema del gas naturale

Oggi il costo del gas naturale è più che sestuplicato rispetto ad un anno fa. In questi giorni, i futures vengono scambiati alla borsa di Amsterdam (il benchmark europeo di riferimento) ad un range di prezzo €100/MWh /  €120/MWh contro i €17/MWh di marzo 2021.

Questo mostruoso aumento, che è stato persino e di gran lunga superiore nei primi momenti della guerra, va a minare pesantemente la fiducia di famiglie e imprese cosiddette “energivore” ma non solo.

Uno degli altri effetti a cui potremmo assistere nel breve, almeno in alcuni paesi dell’UE, è infatti quel fenomeno (mai visto neanche durante crisi energetica del 1973) di “Distruzione della Domanda” (ovvero lo specifico drastico minor consumo di energia).

Come siamo arrivati a questo, guerra a parte?

I futures del gas naturale da aprile 2021 a gennaio 2022

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Quali sono stati quindi i fattori scatenanti?

Primo su tutti, l’aumento a livello globale della domanda, dovuto all’uscita dei paesi dalle imposizioni imposte dai vari lockdown. A questo si sono poi aggiunti l’inverno più rigido e la maggior concorrenza dei paesi dell’Asia orientale

Non sono infine mancati anche problematiche lato offerta, come i ritardi nella manutenzione degli impianti e, generalmente parlando, il minor numero di investimenti.

Questi prezzi hanno poi fissato a loro volta nuovi prezzi sui mercati dell’elettricità, dato che oltre un quinto di quella europea, proviene dal gas naturale. In Italia addirittura il 50% circa.

Quali paesi esportano più gas naturale in UE?

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L‘UE dipende fortemente dalle importazioni di gas naturale che provengono dall’esterno, dato che la produzione interna è andata gradualmente diminuendo nel corso degli anni.

Stando alle stime di Eurostat, l’UE ha dovuto importare quasi il 90% del suo gas naturale dall’esterno  nel 2019.

E cosa ancor più grave, alla luce di quanto sta avvenendo in Ucraina, la Russia è il più grande esportatore in UE, rappresentando il 43,4% del totale nel 2020, seguita dalla Norvegia.

Con ogni probabilità, le stime sull’esportazione in UE del gas russo subiranno una sensibile contrazione, o addirittura cesseranno entro la fine del 2022.

L’importanza del consumo di gas naturale in UE

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Il gas naturale è il secondo combustibile più consumato dai 27 dell’UE dopo petrolio e prodotti petroliferi.

Nonostante i consumi siano diminuiti rispetto al 2008, questo rimane una grande fonte di energia.

Alcuni esperti hanno affermato che parte del problema è la dipendenza dai combustibili fossili e che il passaggio a più energie rinnovabili aiuterebbe a risolvere un problema che è sempre più urgente a causa della drammatica evoluzione dello scenario geopolitico.

Non solo energia

Grano, mais. Ma anche nickel, alluminio e da pochissimo anche l’acciaio; dal 2021 i mercati hanno assistito ai progressivi ed eccezionali rincari di queste materie prime, e con la guerra questa tendenza è stata ulteriormente accentuata da vera e propria scarsità delle risorse nelle catene di approvvigionamento

Solo per quanto riguarda il grano, basti pensare che negli ultimi due anni, Russia ed Ucraina sono stati la fonte di circa il 14% della produzione mondiale, rappresentando circa il 28% delle esportazioni globali.

L’alluminio, il nickel sono balzati ai massimi di 11 anni pochi giorni dopo lo scoppio della guerra. E, a fronte di questo, i commercianti si preparavano ad interrompere i rapporti con la Russia, che poi è uno dei principali produttori di entrambi i metalli. Il tutto in un contesto in cui le scorte globali si stavano già drasticamente riducendo.

Per inciso, le già basse scorte di metalli, monitorate dal London Metal Exchange, sono scese ben oltre al di sotto dei livelli critici, dal momento dello scoppio del conflitto.

Un ritorno all’olio di palma?

Prima dello scoppio della guerra, l’Ucraina era il più grande esportatore mondiale di olio di semi di girasole, coprendo circa il 50% del totale mondiale (cifra ancor superiore se si somma anche  il 25% coperto della Russia).

Soprattutto in UE si sentono già gli effetti della carenza di questo che è a tutti gli effetti uno dei 4 principali oli commestibili globali. Come effetto, anche gli altri (palma, soia e colza) hanno visto aumentare i prezzi delle proprie materie prime. Naturale quindi la forte spinta concorrenziale per colmare il vuoto lasciato dall’assenza del prodotto ucraino.

E non è solo la categoria dell’olio da cucina a risentirne: quest’olio è infatti impiegato in una vasta gamma di categorie merceologiche che includono le salse da cucina  e i prodotti da forno dolci /  salati e il baby food.

Per contestualizzare meglio, il 20% dei prodotti alimentari e bevande lanciati a livello mondiale nel 2021 conteneva olio di girasole o altri derivati ​​(es. lecitina e noccioli).

I fertilizzanti

Le carenze nella catena di approvvigionamento di petrolio, ma soprattutto di gas naturale, pongono le basi per enormi sfide nel comparto agricolo per il presente e il prossimo futuro.

ll gas naturale è un ingrediente chiave nei fertilizzanti a base di azoto. Gli alti prezzi di questo asset porteranno a una diminuzione della sua produzione, minacciando così l’approvvigionamento alimentare globale. 

Già nel 2021, i prezzi dei fertilizzanti erano aumentati vertiginosamente a causa dell’impennata dei future sul gas naturale. Con questo significativo, ulteriore aumento ci sarà una pressione ancora maggiore sui prezzi delle proteine ​​animali come pollame e manzo.

Come nota conclusiva, la Russia è il principale esportatore di fertilizzanti a livello globale.

3 – Lo scenario italiano | War Economy

I contorni sono ormai quelli di una emergenza nazionale che sta colpendo l’industria di trasformazione, di cui l’Italia è una delle “regine” a livello globale.

Le aziende, soprattutto le Pmi, non sono più in grado da tempo di reggere all’urto dei rincari a doppia cifra dell’energia e delle materie prime e sono sempre più costrette a trasferirli a valle, cioè ai consumatori. 

Una prospettiva che ormai da tempo è sfociata in qualcosa di più di un’allerta rossa sia per i comparti produttivi sia per il consumatore finale, con buona pace per l’attuazione del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) che dovrà essere necessariamente riscritto.

Quanto ci sta costando la guerra?

Un’ombra su ripresa e crescita. La fiammata dell’energia prima e la crisi provocata dalla guerra in Ucraina poi rischiano di incenerire 3% del Pil nel 2022, relegando la crescita ad una media del 3% anno su anno. 

Anche con il pieno sfruttamento delle risorse del Pnrr, difficilmente si raggiungerà una crescita media superiore, per questo 2022.

Un macigno che potrebbe mandare in default 184.000 micro o piccole imprese che danno lavoro a circa 1,4 milioni di persone.

Per inciso, in condizioni di pace il nostro paese avrebbe raggiunto i livelli pre pandemici già nel mese di aprile del 2022.

L’inflazione

Come se non bastasse, non si arresta la tendenza al rialzo dell’inflazione, per la quale Confcommercio a marzo stima un +0,6% su febbraio, con un incremento previsto su base annua del 6,1%.; il 2021 si chiudeva con una media dei prezzi al consumo su base annua dell’1,9%.

Rilevanti gli effetti sulla spesa delle famiglie che, a parità di consumi obbligati, spenderanno in media 1.220 in più all’anno per luce e gas, 320 euro per carburanti, 286 euro per alimentari e altri beni essenziali. 

Le stime sul surplus di spesa per i carburanti è antecedente al decreto energia, che avrà effetto fino al mese di aprile. Dopo, il governo dovrà studiare nuove mosse.

La dinamica dei prezzi è spinta al rialzo dal persistere di forti tensioni sui mercati delle materie prime, una tendenza che, anche ipotizzando una diminuzione dell’inflazione e una tranquillizzazione della sfera geopolitica, permarrebbe secondo Confcommercio almeno fino ai mesi estivi.

L’indicatore dei consumi

Una mezza buona notizia proviene dall’indicatore dei consumi di Confcommercio, in cui si registra a marzo una variazione positiva del 5,1% rispetto al mese precedente, frutto di una crescita del 27,7% per i servizi e di un calo dello 0,8% per i beni

Tuttavia, rispetto al gennaio-febbraio 2020, la domanda è nel complesso ancora inferiore del 10,5% (-24,3% servizi, -5% beni).

Nel confronto con i primi due mesi del 2021 i recuperi più significativi si confermano per i servizi legati al turismo e alla fruizione del tempo libero: +210,5% per gli alberghi e +40,4% per i pubblici esercizi, sebbene i numeri siano ancora distanti dai dati per lo stesso periodo del 2020 (pre pandemico).

Critica invece la situazione nel settore dell’automotive, dove addirittura si registra un calo a febbraio 2022 rispetto al 2021 del -25,9%. Confcommercio rileva inoltre segnali di rallentamento anche per quei settori che avevano retto meglio l’urto del calo della domanda nel 2020, quali elettrodomestici, tv, alimentare.

Riscrivere il Pnrr è una necessità

Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, ha spiegato che  la nuova situazione creata con il conflitto in Ucraina e il balzo dei prezzi dell’energia impone di “riscrivere il Pnrr e allungarlo temporalmente” oltre che “spostare gli obiettivi della transizione ecologica”. 

Come risultato Confindustria chiederà al governo una serie di misure per una “strategia di medio lungo periodo” sull’energia.  

Entrando nel dettaglio, il numero uno di Confindustria ha detto che “dobbiamo cambiare il nostro mix energetico, importare gas da altre nazioni, fare nuovi accordi, incentivare le rinnovabili. Soprattutto, dobbiamo sbloccare la burocrazia sulle rinnovabili: non è possibile metterci dieci anni per un impianto. Serve una strategie di indipendenza, è fondamentale per noi e per tutta l’UE. Dobbiamo cambiare investimenti”.

4 – La filiera agroalimentare | War Economy

La sempre più interconnessa filiera produttiva agroalimentare si trova nella  difficile situazione di dover combattere, dove possibile, gli effetti negativi che questa “quasi economia di guerra” sta generando in un settore strategico per l’Italia. 

Ormai già si vedono i primi rincari nel carrello della spesa.

Dopo una forte volatilità iniziale, dato il clima di grande incertezza che ha favorito anche la componente speculativa, ora ci ritroviamo in una situazione in cui i prezzi delle commodity sono stabili, ma molto elevati.

Una tempesta perfetta

L’aumento dei prezzi deriverà inoltre anche da carenze di materie prime per certi versi inaspettate.

Il gas neon, ad esempio, è intrinseco alla produzione di microchip, che già scarseggiavano nel 2021.

L’Ucraina forniva circa il 50% della fornitura globale di questo asset che è sempre più importante per la costruzione delle nuove attrezzature agricole dipendenti da macchinari computerizzati.

Sono sotto la lente di ingrandimento anche altre materie prime intrinseche per l’agricoltura come petrolio, metalli e prodotti chimici, nonché i prodotti finiti  come le stesse attrezzature pesanti agricole.

L’impatto sulla filiera  italiana

In questo quadro, l’Italia produce appena il 36% del grano tenero che le serve, il 53% del mais, il 51% della carne bovina, il 56% del grano duro per la pasta, il 73% dell’orzo, il 63% della carne di maiale e i salumi, il 49% della carne di capra e pecora mentre per latte e formaggi si arriva all’84% di autoapprovvigionamento.

Con lo scoppio della guerra e la crisi energetica, i costi di produzione agricola sono aumentati mediamente di almeno 8 miliardi su base annua rispetto al 2021.

Questa proiezione mette a rischio il futuro delle coltivazioni, degli allevamenti, dell’industria di trasformazione nazionale e degli approvvigionamenti alimentari di 5 milioni di italiani.

Più nel dettaglio i costi di produzione, già saliti oltre le soglie di guardia, sono aumentati ulteriormente raggiungendo – precisa la Coldiretti – per alcuni prodotti valori che vanno dal +170% dei concimi, al +80% dell’energia e al +50% dei mangimi.

Le limitazioni all’export ucraino

Nel giro di pochi giorni a causa dei limiti alle esportazioni previsti dall’Ucraina per evitare carenze di cibo, il costo del grano è aumentato del 38,6%, quello del mais del 17% e quello della soia del 6%.

Più in generale, la limitazione delle esportazioni riguarda direttamente l’Italia che ha importato dal paese invaso dalla Russia 570 milioni di euro di prodotti agroalimentari nel 2021 e riguarda soprattutto l’olio di girasole per un valore di circa 260 milioni di euro, il mais destinato all’alimentazione degli animali per oltre 140 milioni e il grano tenero per la panificazione per circa 30 milioni. 

Ricadute sul pack: è allarme vetro

L’emergenza non si limita all’ingredientistica ma si estende all’imballo. Oltre alla crisi della carta, che incide sulle etichette, la questione sta coinvolgendo anche il vetro destinato al settore agroalimentare. 

La crisi globale del vetro, iniziata nel 2020, è proseguita nel 2021 portando a un progressivo blocco delle consegne dei contenitori alle industrie. Direttamente coinvolto è il settore dei barattoli per sughi, marmellate e conserve.

In Europa la produzione di vetro per l’industria alimentare è in mano a poche aziende: Vetropack, Voa e St. Gobain. In particolare, Vetropack è uno tra i pochi gruppi che arriva a produrre 140mila tonnellate di vetro per il mercato europeo e globale. Il sito dell’azienda a Gostomel, in Ucraina, è stato gravemente danneggiato dalle attività militari recenti e la produzione è stata sospesa, come indicato dall’azienda. 

Una nuova sovranità alimentare?

La concomitante crisi dell’autotrasporto, legata ai costi dei carburanti, rischia di provocare danni incalcolabili. Ci basti pensare che in Italia, l’85 % delle merci viaggia su strada, mettendo così a rischio i prodotti più deperibili.

Come sottolineato dalle associazioni di categoria (es. Confagricoltura), la crisi attuale ha messo in luce la necessità di potenziare la sovranità alimentare a livello nazionale, anche diversificando le fonti di approvvigionamento, per evitare di essere dipendenti dai mercati esteri.

Nel frattempo, è fondamentale garantire la consegna dei prodotti alimentari per assicurare le forniture alla popolazione e soprattutto evitare, se possibile,  speculazioni sui prezzi di prodotti come grano, riso, mais, soia, cereali e dei fertilizzanti.

5 – L’impatto sui consumatori | War Economy

Non vedevamo l’ora che venissero allentate le restrizioni dal momento che il COVID-19 ha lentamente iniziato a passare a una fase endemica, almeno nel primo mondo.

Ma il conflitto e la rapida risposta di altre nazioni ha portato a un’esplosione delle tendenze inflazionistiche che pur serpeggiavano, come abbiamo visto, già nel 2021, congiuntamente alla scarsità di alcune materie prime con cui stiamo cominciando a familiarizzare.

Tuttavia, non è la prima volta che la fiducia dei consumatori viene minata da problemi globali. La storia degli ultimi 30 anni ne è un esempio.

Innanzitutto economizzare

La pandemia aveva già abituato i consumatori ad economizzare.

Di fatto, siamo già condizionati ad aspettarci l’imprevisto, e per certi versi, siamo anche pronti ad un trade-off inevitabilmente al ribasso.

Il diffuso impatto dell’inflazione causato dalla crisi ucraina, sarà per noi un’altra sfida da affrontare, sebbene siamo già consapevoli delle strategie da utilizzare per aiutare noi stessi e le nostre famiglie.

A gennaio 2022,  i consumatori francesi  riducevano del 39% l’acquisto di prodotti non essenziali.

Monitorare le abitudini di spesa

Negli ultimi 3 anni è stato notato come i consumatori reagiscano agli aumenti dei prezzi monitorando più da vicino la propria spesa.

È probabile che le abitudini “affinate” durante la pandemia si riprendano man mano che l’inflazione cresce e i prodotti diventano più costosi.

Strategie come fare acquisti con maggiore attenzione, abbandonare i brand premium, passare alle PL o comunque a prodotti primo prezzo,  sono alcuni tra i comportamenti che potrebbero diventare usuali con l’aumento dei prezzi, per una fascia più ampia della popolazione.

A dicembre 2021, il 57% dei consumatori spagnoli faceva una lista della spesa, attenendosi strettamente ad essa, come modo per risparmiare sui generi alimentari

Il ritorno all’autosufficienza

L’incertezza delle catene di approvvigionamento globali e l’aumento dei prezzi potrebbero portare ancora una volta i consumatori alle pratiche di inizio pandemia di autosufficienza.

È infatti probabile che i consumatori gravitino di nuovo verso la coltivazione delle proprie verdure o la realizzazione del pane fatto in casa, e verso il sostegno ai prodotti locali per limitare gli effetti sui bilanci familiari.

Le strategie, che hanno aiutato le persone a viaggiare attraverso la grande recessione del 2020, potrebbero tornare nel prossimo futuro: vacanze di prossimità, cenare a casa invece che fuori, fare acquisti localmente e altro ancora.

Il 72% dei consumatori statunitensi concorda sul fatto che coltivare cibo per conto proprio faccia risparmiare denaro.

6 – Ricadute sulla marketing industry | War Economy

Da Meta Platforms a Google passando per Apple e l’ecosistema annesso, la critica alla Russia è diventata una caratteristica comune dell’advertising e dell‘industria occidentale del marketing, più in generale.

Ma mentre social media e provider occidentali stanno bloccando la Russia, isolandola sempre di più, Rob Blackie, un digital strategist britannico, ha cercato di fare il contrario: e cioè voleva  che i russi vedessero notizie imparziali sull’invasione in Ucraina. 

Ma concretamente come si sta comportando, il settore nella conduzione quotidiana del business, in relazione alla crisi ucraina?

Chi vuole essere vicino a una cattiva notizia?

Negli USA, dallo scoppio della guerra, gli editori hanno assistito ad un calo significativo delle entrate pubblicitarie.

La riduzione della spesa dei brand in adv è motivata dalla crescente preoccupazione di apparire accanto alle drammatiche notizie sull’invasione russa.

Secondo The Drum, non si tratta di una tendenza sorprendente, in quanto un fatto simile era accaduto durante i primissimi periodi della pandemia. 

Secondo il rapporto News Media Alliance, di cui il media fa menzione,  per i media minoritari questa riduzione di budget sarebbe una realtà quotidiana.

Un piccolo vademecum

Poiché questa non è né la prima né l’ultima grande crisi che il nostro mondo ha dovuto affrontare negli ultimi 30 anni, dedichiamo un piccolo vademecum per tutti coloro che hanno paura di apparire accanto a disinformazione o, peggio, propaganda. 

Alcune agenzie e aziende conoscono già questi topic da tempo, altri possono invece prenderli come spunto per agire hic et nunc:

  • Segnala la disinformazione alle piattaforme quando la vedi
  • Lavora con i media certificati e pubblica ads su domini e app altrettanto certificati
  • Usa gli strumenti dei social media per limitare l’adiacenza a notizie negative
  • Presta attenzione agli ambienti in-feed in cui le persone possono esprimere opinioni molto forti.
  • Cerca di capire il sentiment “locale” della tua audience
  • Fai affidamento a giornalismo di qualità 
  • Usa le parole chiave solo se necessario, non bloccare i contenuti positivi
  • Blocca i canali di disinformazione/propaganda noti
  • Usa empatia e buon senso

Elenco delle fonti utilizzate per la pubblicazione dell’articolo:

1 Lo scenario internazionale

2 L’energia e le materie prime

3 Lo scenario italiano

4 La filiera agroalimentare

5 L’impatto sui consumatori

6 Ricadute sulla Marketing industry