Sostenibilità

Digital footcarbon print

La Rivoluzione Digitale nella visione comune è il pilastro di uno sviluppo completamente sostenibile.

12 gennaio 2021 13 minuti
Rivoluzione digitale e sostenibilità

La Rivoluzione Digitale nella visione comune è il pilastro di uno sviluppo completamente sostenibile.

L’idea di un futuro dagli orizzonti per sempre liberi dalle ciminiere, dallo smog, dal grigiore e dalle polveri normalmente collegate alle fabbriche “materiali” nate dalla Rivoluzione Industriale però è un’ingenuità: tutto quello che facciamo on-line ha un costo in termini di emissioni di diossido di carbonio, quindi ha un peso sull’ambiente.

Il traffico, il calcolo e lo stoccaggio di dati richiedono dosi sempre più massicce di energia e sono destinati a pesare sempre di più sul bilancio del consumo energetico mondiale, quindi sul riscaldamento del pianeta.

Ogni giorno piccole azioni di miliardi di umani consumano energia;
in questo non c’è nulla di male, però diventa essenziale portare consapevolezza anche sui questi gesti quotidiani apparentemente innocui che ripetuti sistematicamente dall’intera popolazione della Terra si trasformano in grandi voci di spesa energetica e quindi di produzione di CO2.

Consideriamo ad esempio la comunicazione interpersonale:
un SMS è più leggero di tanti altri modi per comunicare: pesa solo 0,014 grammi di CO2 rispetto agli 0,2 di un tweet e ai 4 di una e-mail, di un messaggio WA o su Messanger, questo è uno dei casi in cui una vecchia tecnologia si dimostra più economica delle nuove.
Naturalmente va considerato anche che i messaggi con emoji e immagini pesano più di quelli di solo testo; i messaggi con foto – in base alla risoluzione dell’immagine, poi arrivano fino ai 50 grammi, mentre una telefonata di un minuto pesa poco più dell’invio di un SMS.
Le videochiamate comportano un consumo energetico molto maggiore, per non parlare delle videoconferenze: una riunione di 5 ore fra partecipanti di diversi paesi può arrivare a produrre importi di CO2 decisamente più rilevanti (fino a centinaia di kg), sebbene comunque di molto inferiori a quelli che avrebbe comportato lo spostamento, magari in aereo, dei partecipanti per fare la riunione di persona.

I giocatori di videogame usano il 2,4% dell’energia elettrica destinata all’uso domestico medio, più di quello che serve in generale a far funzionare lavatrici e frigoriferi e, naturalmente, tutto il calcolo che avviene in remoto brucia più elettricità di quello svolto in locale dal proprio device, quindi i video giochi in streaming sono in più pesanti di tutti.

Le ricerche online di tutto il mondo, secondo un calcolo abbastanza recente, generano 12 542 tonnellate di CO2 al giorno, è per questo che ottimizzare bene i siti usando tecnologie e algoritmi aggiornati è importante.

I video, film in streaming inclusi, sono dei veri e propri energy-burner, per questo la compressione è fondamentale e non solo per permettere una visione fluida a chi ha una connessione di scarsa qualità ma anche e soprattutto per risparmiare energia.

Secondo The Shift Project, think tank francese che mira a limitare sia i cambiamenti climatici che la dipendenza della nostra economia dai combustibili fossili, i video on line da soli produrrebbero circa 300 milioni di tonnellate di diossido di carbonio all’anno, cioè circa l’1% delle emissioni globali, il web sarebbe responsabile del 4% delle emissioni di gas serra e l’insieme delle attività su Internet raggiungerebbe il 7%.

É pur vero che l’International Energy Agency, l’associazione intergovernativa per lo sviluppo delle politiche energetiche, invece contesta i dati di The Shift Project.

Però comunque l’impatto sull’ambiente dello streaming su banda larghissima con tutte le altre attività web e internet in combinato disposto è innegabile.
In questa marea di attività digitali ci sono cose a cui si pensa immediatamente come il traffico dati generato dall’insieme dei social, la piattaforma Youtube, Spotify,

l’ e-commerce e i suoi giganti, l’aumento della possibilità di invio dati creata dal 5G oggi e dal 6G già in progress per domani.
Ma anche cose a cui si pensa meno, come le decine di miliardi di apparecchi connessi all’internet of things.

Poi c’è l’e-finance che non riguarda solo le piattaforme di credito e investimento ma più semplicemente anche solo l’uso delle carte di credito e dell’home banking e di tutte le app di pagamento che si stanno affermando sempre di più.

Risultato? La rivoluzione digitale non è innocente. Partecipa come tutto il resto al riscaldamento del pianeta. Il che non vuol dire neanche che sia colpevole, è un’evoluzione dell’attività umana con dei costi e dei benefici, si tratta di cercare di ridurre gli uni e massimizzare gli altri.
I grandi player del dotcom dimostrano comunque grande consapevolezza rispetto al tema e si stanno muovendo coscienziosamente ormai già da tempo, il Big Tech Climate Commitment è una voce importante delle loro visioni aziendali.
Facebook per esempio si è impegnata a portarsi ad impatto zero entro il 2030 e, per ora, ce l’ha fatta utilizzando il meccanismo della compensazione e acquisto di carbon credit, quindi di fatto al momento sta ancora emettendo gas serra, semplicemente si limita a compensare le sue emissioni investendo in progetti di energie rinnovabili o in iniziative che catturano e sequestrano CO2 liberando l’atmosfera. Si è data anche un altro obiettivo molto ambizioso: raggiungere entro il 2030 l’impatto zero anche per le attività di tutta la sua catena di fornitori, per gli spostamenti quotidiani dei suoi impiegati e di tutti gli spostamenti di lavoro aziendali. Va detto che fin dal 2017 le emissioni di gas serra di fb hanno continuato a decrescere, nel 2019 ammontavano approssimativamente a sole 251 000 tonnellate rispetto alle 616 000 del 2017.

E comunque la sua footcarbon print è significativamente inferiore a quella di Google con i suoi 4.4 milioni di tonnellate del 2018.
La stessa Google ha cominciato ad azzerare le sue emissioni tramite compensazione fin dal 2007 e ultimamente ha annunciato un hard target molto ambizioso: diventare la prima Big Tech ad alimentare completamente tutte le sue attività con energia carbon-free entro il 2030, invece di continuare a farlo investendo in compensazioni.
Netflix ha intenzione di pubblicare ogni anno un bilancio energetico trasparente ma non si è ancora data l’obiettivo di emissioni zero.
Apple pianifica di raggiungere quota zero nel 2030 e Amazon nel 2040.

In teoria il ruolo dell’Intelligenza Artificiale nella gestione delle risorse comporterebbe una svolta verde importante nel consumo di energia ma c’è sempre un però: qualcuno mette in guardia rispetto al consumo energetico che potrebbe comportare un significativo e non regolato dispiegamento dell’intelligenza artificiale in sé.
Questo qualcuno non è uno qualunque: si chiama Yushua Bengio ed è il premio Turing 2018; ha collaborato in maniera importante alla creazione di CodeCarbon, uno strumento open-source rivoluzionario sviluppato da Mila, BCG GAMMA, Haverford College e Comet.ml per aiutare imprese ed organizzazioni digitali a misurare la loro digital footcarbon print in generale e quella legata all’utilizzo di AI in particolare.

L’uso di AI infatti può migliorare la società in molti modi ma il quantitativo di energia necessario per supportare la sua capacità di calcolo può risultare in un costo eccessivo per l’ambiente.
In fondo si tratta della replica dello stesso vecchio meccanismo che ha riguardato lo smaltimento dei pannelli solari esausti e che riguarderà molto presto quello delle batterie delle auto elettriche una volta finto il loro ciclo di vita: qualcosa viene inventato per risparmiare impatto al pianeta ma poi diventa fonte di impatto in sé.

Yushua Bengio spera che in un futuro a breve diventi obbligatorio dichiarare i consumi e la produzione di CO2 di ogni servizio digitale e di ogni Data Farm, e questo fuga ogni dubbio sul fatto che il tema della sostenibilità è destinato a diventare un punto caldo negli sviluppi della digital revolution.
Soprattutto perché si tratta di un impatto ambientale va ad aggiungersi alle altre forme di inquinamento che comunque non danno segno di diminuzione.

Tutta la spesa energetica digitale valutata fin’ ora diventa quasi una bazzecola al confronto di quella complessiva delle Data Farm o Data Center: il corpo materiale del Cloud, che non è un’eterea nuvola, come suggerisce la parola, ma una sterminata distesa di grandi insiemi di server – di solito gestiti da organizzazioni che forniscono servizi di funzionalità con capacità ben superiori a quelle di un singolo server, anche potentissimo.

Le Data Farm si trovano in tutto il mondo e sono sempre situate in location particolari, luoghi al sicuro da eventi sismici e da potenziali disastri aerei che consentono un accesso privilegiato all’energia e alle connessioni.

Queste strutture sono gli indispensabili sistemi nervosi centrali attraverso i quali transita e si raccoglie l’attività su web del mondo intero.
Sono i grandi fagocitatori di energia, ma sono anche coloro che, proprio per questo, stanno sviluppando materialmente tecnologie futuristiche per ridurne il consumo.

L’industria del data farming, proprio per il suo estremo bisogno di grandissime quantità di energia senza le quali non può esistere e per la sua necessità di evitare ad ogni costo dei blackout, da tempo sta sviluppando strategie straordinariamente dirompenti per economizzarne l’uso, un vantaggio dell’industry che però non manca di trasformarsi in un vantaggio per l’ecosistema globale.
I Data Center infatti consumano 200 terawatt-ora all’anno, cioè circa la metà dell’energia elettrica consumata per i trasporti in tutto il mondo.
Si tratta comunque soltanto dell’1% della domanda globale di elettricità e producono solo lo 0,3% delle emissioni di carbonio complessive ma il loro impatto è destinato ad aumentare di circa 15 volte entro il 2030, arrivando ad oscillare fra l’8 e il 13% della domanda mondiale di energia, ecco perché è indispensabile continuare a lavorare all’ottimizzazione dei loro consumi.

In Italia ci sono due grandissimi Data Center, il primo è stato quello di Siziano, in provincia di Pavia, situata nella zona antisismica per eccellenza d’Italia: la pianura padana.
Si tratta di un impianto Supenap, una diramazione di Switch, società nordamericana all’avanguardia nello sviluppo delle tecnologie di questo settore che per prima ha cominciato ad elaborare protocolli per l’ottimizzazione di energia, dei quali possiede una gran parte dei brevetti.
Il Supernap di Siziano, includendo logistica e infrastrutture, copre un’area di 100 mila mq e oltre ad essere in una no-fly-zone è situato vicino alla centrale elettrica di Terna.

Supernap ha Data Center sparsi in tutto il mondo ma il suo capostipite si trova nella Death Valley, nei pressi di Las Vegas, è il più grande negli USA ed è situato esattamente sulla dorsale in fibra ottica che serve le più grandi telco nordamericane. Location ottima per la banda a disposizione, certo! Ma non si può proprio dire che le temperature estive diurne della Death Valley siano l’ideale per tenere i server al fresco senza sprecare energia.

Molto interessante dal punto di vista dell’approvigionamento energetico è l’altro Data Center italiano, di proprietà di Aruba, situato a Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo.
I suoi 200 mila mq ne fanno più grande d’Italia e del sud Europa; ricava la sua energia dallo scorrere delle acque del fiume Brembo, sulle cui sponde possiede una sua centrale idroelettrica; si rifornisce inoltre di energia grazie alla sua singolare architettura interamente ricoperta di pannelli solari.

L’innovazione di questo centro non si ferma all’utilizzo di fonti rinnovabili ed ecosostenibili, si estende anche a vere e proprie invenzioni che sfruttano le caratteristiche geologiche del territorio: è stato sviluppato infatti un sistema di condizionamento delle sale server (che devono rimanere intorno ai 20° celsius al massimo) la cui aria viene raffreddata sfruttando l’acqua di una falda sottostante che si mantiene sempre intorno ai 9°. Va detto che non tutta la sala viene condizionata: l’aria fredda viene direzionata solo sulle parti dei server che necessitano un abbassamento di temperatura.

Ancor più sbalorditiva dal punto di vista della geo-localizzazione è stata la soluzione di energy saving ideata da Microsoft che ha deciso di posizionare il suo Data Center sui fondali del gelido Mare del Nord che circonda le isole Orkney, al largo della Scozia. Il Project Nantik, questo il nome della struttura, consiste in un cilindro bianco di oltre 12 metri di lunghezza, progettato e costruito dalla società francese Naval, che stiva 900 server. Il container è in grado di rimanere inabissato per 5 anni senza subire danneggiamenti e ossidazioni in un luogo dove le temperature sono ideali per permettere il raffreddamento dei server senza nessuna spesa energetica. L’elettricità necessaria per il funzionamento delle macchine è prodotta in modo completamente ecosostenibile attraverso il moto ondoso e i flussi delle maree. Una soluzione geniale!

Per concludere la carrellata ecco il progetto della norvegese Kolos che ha insediato il suo Data Center (successivamente acquisito da Hive Blockchain per il mining e lo stoccaggio delle transazioni in cripto-valute) proprio al Circolo Polare Artico, a Ballagen nella contea di Norland, una piccola città che un tempo fu un centro minerario e che si trova su un fiordo. Qui le basse temperature, l’energia eolica e idroelettrica non mancano di certo. Visto il territorio peculiare dove sorge questa Data Farm gli architetti hanno dovuto studiare soluzioni costruttive decisamente sorprendenti.
Il Kolos Data Center è il più grande al mondo rifornito esclusivamente da energie rinnovabili.

Approfittiamo del collegamento fra il Kolos Data Center e la Hive Blockchain per dare una breve occhiata all’attività digitale energivora e tutto sommato apparentemente meno utile per eccellenza, cioè l’uso delle cripto-valute.
Come funziona, ad esempio, la rete Bit Coin a livello di costi energetici? Qual’ è il consumo richiesto dal mining, cioè dal calcolo necessario alla generazione di nuovi pezzi della blockchain? Le risposte a queste domande sono impressionanti: in un anno il consumo energetico degli scambi in cripto-valute si aggira attorno ad una cifra pari agli 80 terawatt/ora, più o meno lo stesso consumo di energia di una nazione come il Cile.

L’impronta ecologica di Bit Coin, misurata in emissioni di CO2 sfiora i 37 milioni di tonnellate.
Il confronto col circuito Visa è impietoso: una transazione BTC consuma quanto 600 000 transazioni Visa, ancora una volta una vecchia tecnologia che andrebbe preferita alla nuova perché ad impatto ambientale più basso.

Il consumo energetico e la conseguente emissione di CO2 però non sono gli unici fattori da tenere in conto a proposito di impatto ambientale e sostenibilità digitale.

C’è anche il tema dell’e-waste, cioè il rifiuto elettronico e digitale e non è un tema da poco. Ha dato origine a diverse normative internazionali a partire dalla RAEE che ha visto la sua ultima modifica nel 2014 e coinvolge produttori e rivenditori nel recupero e nel riciclo e nello smaltimento degli apparecchi a fine vita.

A proposito di questo va segnalata una anomalia italiana: il nostro paese che è tra i primi al mondo per la raccolta differenziata e l’economia circolare, si classifica fra gli ultimi in Europa per il corretto smaltimento e il recupero di materiale elettronico e digitale.

Le statistiche di fine 2018 calcolano l’e-waste in circa 50 milioni di tonnellate che corrispondono ad un valore di 50 miliardi di €, di queste solo un 20% viene correttamente avviato al riciclo e al recupero di materiali preziosissimi. Basta considerare che da una tonnellata di vecchi smartphone si ricava più oro che da una tonnellata di materiale grezzo estratto da una miniera d’oro per convincersi che siamo di fronte ad uno spreco insostenibile. Oltre che ad una forma di inquinamento pericolosissima: un device come un pc o uno smartphone contiene infatti anche materiali altamente tossici come i liquidi delle batterie al litio.

Il tema dell’e-waste, quindi, coinvolge entrambi i grandi protagonisti dell’impatto ambientale: inquinamento e spreco.
Comporta sia la perdita di materiali di grande valore, non solo oro e platino ma anche le famose rare-earth indispensabili alle produzioni dell’industria digitale, sia danni ambientali ingentissimi, le cui conseguenze al momento sono difficilmente valutabili, che si concentrano soprattutto in Pakistan e Nigeria cioè le nazioni dove viene smaltita la gran parte dei rifiuti, anche tossici, di tutto il mondo.

Ruediger Kuher, uno fra i massimi esperti mondiali di e-waste, prevede che senza un’azione immediata entro il 2050 ci ritroveremo con una produzione di 120 milioni di tonnellate di e-waste all’anno.

Durante il Forum di Davos del 2019 è stata richiesta una task-force internazionale di esperti e scienziati per cominciare ad affrontare il tema.

Che come tutti gli altri temi relativi ai rifiuti, per essere affrontato in maniera efficiente ha bisogno di consapevolezze individuali ma anche e soprattutto di soluzioni legislative e tecnologiche collettive e condivise a livello globale.