Ecoinnovazione per la sostenibilità
Chi di noi non ha incontrato una bottiglia o un vasetto restituito dal mare durante […]

Chi di noi non ha incontrato una bottiglia o un vasetto restituito dal mare durante una passeggiata lungo la spiaggia, anche la più apparentemente incontaminata?
Quanto di ciò che inquina il pianeta ha a che vedere con quello che resta del packaging a fine vita?
Non il 100% ma certamente una parte importante.
L’inquinamento da plastica e lo smaltimento ottimale della frazione di rifiuti che deriva da involucri prodotti in questo materiale è un problema mondiale enorme e per risolverlo occorre uno sforzo condiviso da parte dell’intero sistema globale ma, allo stesso tempo, è uno sforzo collettivo che dipende necessariamente da iniziative coordinate di singoli e gruppi che agiscono all’interno dei settori produttivi che implicano l’utilizzo delle plastiche.
In particolare le aziende FMCG e la business community possono dare un contributo fondamentale in questo senso.
Il tema, complesso, quindi è destinato a trovare un percorso risolutivo muovendosi fra il polo della necessità di una risposta corale e sistemica e quello delle soluzioni immaginate dai soggetti più direttamente coinvolti.
Chi pensa, progetta e disegna packaging per produzioni industriali è sicuramente un attore di questo scenario.
É dovere di ogni buon designer contribuire con una riflessione al riguardo.
Una riflessione, in questo caso, basata sul tentativo di capovolgere di alcuni luoghi comuni.
- PROPRIETÀ e RESPONSABILITÀ DEI RIFIUTI.
Partiamo dal concetto di fine vita di un involucro realizzato in un materiale qualsiasi: quando l’involucro si trasforma in rifiuto diventa qualcosa che, nella mentalità corrente, non appartiene a nessuno.
Se l’involucro è composto da materiali destinati a dissolversi nell’ambiente in maniera innocua il danno è relativo, sebbene si tratti comunque di uno spreco di ricchezza.
Se invece l’involucro è fatto con materiali nocivi, anche solo per una frazione di ambiente e addirittura virtualmente indistruttibili, come appunto è la plastica, la questione cambia e questo oggetto senza nessun proprietario si trasforma in un problema di tutti.
Il concetto di proprietà del rifiuto e soprattutto del rifiuto composto da un materiale di lunghissima durata, può diventare quindi una leva fondamentale, un passo importante verso la soluzione del problema.
Del resto l’idea dell’assenza di un proprietario del rifiuto ha già cominciato a decadere da qualche tempo: nella direttiva europea SUP (single use plastic) si parla infatti già di materiali EPR, cioè materiali che richiedono, da parte del produttore un’assunzione di responsabilità estesa, cioè l’impegno materiale per lo smaltimento o il riciclo. O quanto meno l’impegno a diffondere le informazioni necessarie affinché i consumatori siano consapevoli degli obblighi di legge per lo smaltimento del materiale.
Spingendo oltre quest’idea si possono immaginare pratiche e processi che prevedano la totale PROPRIETA’ di questo involucro da parte di chi lo ha prodotto e messo in circolazione.
Ma più ancora deve essere intesa una responsabilità precisa del designer che l’ha progettato: se un progetto di packaging lascia il mondo più inquinato di come l’ha trovato, significa che non è un buon progetto.
L’acquisizione proprietà e di responsabilità del packaging dall’inizio del suo percorso fino al momento del suo fine vita può certamente essere una leva per la riduzione dell’impatto.
- FINE VITA MAI
Ma in definitiva è lo stesso concetto di fine vita a dover sparire, o meglio a doversi trasformare a sua volta, in quello di inizio di una vita nuova, in una rinascita sotto altre forme. Immaginiamo la materia come qualcosa che attraversa una serie di reincarnazioni, immaginiamola vivere vite successive: questa può essere una metafora efficace per descrivere l’economia circolare.
- LA PLASTICA NON È IL MALE
La plastica non va combattuta in sé. Quella che va eliminata è la plastica dispersa nell’ambiente. La plastica in sé non è il male, anzi, sono proprio le caratteristiche che la rendono per certi versi prodigiosa a trasformarla in un problema.
La plastica è leggera, è economica, è estremamente resistente, regge bene la produzione ed è perfetta per garantire la sicurezza del cibo che contiene. Ma è un polimero che deriva da materiale fossile, quindi ha di per sé una carbon footprint piuttosto pesante. Ha però una capacità di proteggere il cibo (funzione barriera) fino ad oggi ineguagliata.
Soprattutto in questo momento storico che ci vede preoccupati di igienizzare qualsiasi cosa entri nelle nostre case, si può convenire che la plastica rappresenti la barriera perfetta, creata dalla cultura umana, fra gli uomini e quanto di non addomesticato e pericoloso la natura può rappresentare, come ad esempio un virus.
La sicurezza degli alimenti e la loro buona conservazione sono bisogni PRIMARI dell’uomo, il packaging in questo senso è un’attività che assolve alla soddisfazione di qualcosa di fondamentale, di un bisogno primario. Del resto anche la sostenibilità ambientale si pone sempre di più come un bisogno primario dell’umanità.
Nel packaging del cibo il tema più difficile da affrontare a livello di eco-innovazione è proprio quello della funzione barriera, o meglio della sostituzione dei polimeri di origine fossile nei materiali dedicati a questa funzione (si parla infatti di barriere al vapore, all’alcool, ai grassi). Questo è il tema della ricerca chimica e fisica per l’innovazione, al quale si sta lavorando. Ma per ora non è ancora stata individuata una soluzione univoca.
La vera questione non è tanto la sostituzione dalla plastica, intesa come polimero, quanto lo sviluppo di materiali polimerici che abbiano una migliore eco-efficienza, quindi una più bassa impronta di Co2, una capacità di essere riutilizzati o compostati quindi innocui per l’ambiente.
La soluzione non sta solo nel sostituire la plastica con altri materiali, perché a lungo andare con un utilizzo estensivo, anche questi finirebbero per avere un impatto sull’ecosistema globale (basta pensare a quanto sia energivora la produzione di alluminio e forse ancora di più del vetro o il consumo di risorse competitive con il mondo alimentare per molti bio polimeri).
La vera questione quindi è imparare a progettare correttamente CON la plastica, collaborando con la ricerca per l’evoluzione di essa.
Storicamente il principio progettuale partiva dal concetto di riduzione dell’uso della plastica.
A questo principio oggi va integrato quello di design for plastic recovery che prevede i seguenti punti:
- l’uso della plastica è il principale incentivo al processo di RECUPERO per il RICICLO, quindi di allontanamento della plastica dalla natura;
- transizione da una cultura progettuale fondata sulla ricerca del modo di utilizzare meno materiale verso un progetto fondato sul modo di usare meno materiale vergine;
- ricerca di materiali realizzati usando un singolo polimero per volta.
Questa prospettiva che include la plastica, incentivando la raccolta per il riciclo, contribuisce alla virtuosità di un’economia circolare.
Se, per ipotesi estrema e improbabile, oggi improvvisamente tutti smettessero di utilizzare la plastica per i packaging, paradossalmente il problema di plastica abbandonata nell’ambiente potrebbe aumentare invece di risolversi, per mancanza di convenienza negli asset di recovery.
Lavorare con la plastica riciclata vuol dire perseguire l’obiettivo di ridurre l’immissione nell’ambiente di nuovi materiali che derivano dagli idrocarburi, quindi a componente fossile. Che resta comunque un ottimo obiettivo tattico per il ripristino della sostenibilità di processo.
- NON ESISTE IL PROGETTO DI DESIGN PER UN PACKAGING ECO-SOSTENIBILE CHE FUNZIONI IN TUTTO IL MONDO.
I progetti devono essere pensati ad hoc per il paese in cui vivranno perché in ogni nazione vigono legislazioni differenti: un progetto perfetto per l’Italia non sempre va bene in Germania.
Oggi la maggior parte dei packaging per i detersivi sono realizzati con plastica riciclata al 100% e non hanno difficoltà ad essere distribuiti in tutto il mondo perché il prodotto che contengono chiaramente non ha le stesse esigenze di un prodotto alimentare.
La situazione è molto meno univoca per le bevande, dove oggi e solo in alcune zone, si stanno cominciando ad utilizzare packaging realizzati con PET riciclato al 100%.
Queste possibilità o difficoltà dipendono anche molto dalla qualità del materiale che si ricava dal processo di riciclo.
Che chiaramente non è omogenea nelle differenti regioni del mondo.
Queste differenze nella regolamentazione per l’uso dei materiali ma anche nei materiali stessi, sono uno dei motivi principali per cui fare dell’eco-innovazione diventa difficile.
E se vogliamo davvero pensare di risolvere la questione andrebbero eliminate. Un problema globale deve cercare soluzioni globali almeno nei principi.
Questa incongruenza si fa particolarmente evidente per quanto riguarda il riciclo dei contenitori usa e getta che sono una delle criticità più importanti.
Ad oggi è in teoria è più semplice immaginare di renderli sostenibili attraverso la compostabilità.
Ma poi nella pratica il percorso, in questo caso, si fa ancora più impervio.
Prima di tutto perché i polimeri compostabili sono materiali rari che per essere sostenibili devono derivare anch’essi dallo scarto industriale della lavorazione dei materiali di origine naturale o alimentare senza intaccarne la filiera. E poi perché la compostabilità industriale, a differenza i quella domestica ha bisogno di infrastrutture tutt’altro che banali. Che pochi hanno a disposizione.
Ci sono infatti questioni sociali che sono strettamente collegate alla capacità di raccogliere, riciclare o addirittura compostare a livello industriale, che vanno tenute in considerazione: un progetto pensato per un sistema avanzato di recupero per il riciclo è destinato a fallire in un a zona del mondo che sta ancora strutturandosi in questo percorso. Un progetto che prevede la trasformazione del materiale attraverso la raccolta e il riciclo o la compostabilità è sprecato se viene agito in un luogo che non dispone della capacità di mettere in pratica queste azioni.
Ogni progetto di packaging eco innovativo deve adeguarsi al sistema di Recovery & Recycle a disposizione del luogo dove sarà prodotto e commercializzato se si vuole che abbia un senso e sortisca un effetto rispetto all’obiettivo finale che è quello di contribuire a risolvere il problema dell’inquinamento da plastica dispersa nell’ambiente, almeno in parte e almeno in quel determinato luogo.
C’é poi da considerare che alcuni materiali presentano difficoltà strutturali nella riciclabilità, per esempio tutti i flow pack, cioè quei sacchetti morbidi che garantiscono un effetto barriera, perché sono realizzati con lamine sovrapposte di materiali differenti (multipolimeri e metalli) e quindi a oggi sono destinati alla termovalorizzazione.
Comunque è certo che i materiali che non trovano altra forma di riutilizzo che non sia la termovalorizzazione costituiscono la parte più critica del problema.
Una parte che richiede ancora moltissimo lavoro di eco-design di innovazione da parte della ricerca universitaria e di quella dei produttori, per trovare soluzioni.
In conclusione: lavorare ad un packaging ideale per la risoluzione del problema della plastica dispersa nell’ambiente non è questione che si risolve in un unico passaggio.
Il lavoro di packaging design in eco-innovazione è un processo progettuale iterativo:
- l’obiettivo è la riduzione dell’utilizzo di materiale a base fossile,
- è necessaria la collaborazione con stakeholder produttivi e di ricerca,
- è necessario implementare la possibilità di recovery,
- va stimolata la partecipazione al riciclo.
L’ottimo può essere raggiunto solo attraverso la valutazione di moltissime variabili.
C’è una cosa però che è certissima fin da ora: l’uso della plastica così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi andrà, più o meno lentamente, a morire. E insieme ad esso morirà una certa idea di packaging, perché è elemento importantissimo nell’affrontare il tema della sostenibilità e quindi dell’eco-innovazione.
Il packaging non potrà più essere valutato esclusivamente in base alle due leve di performance e costo.
Va ricercato un nuovo standard, che sappia valorizzarne il fine vita.
Questo prevede una mutazione di paradigma: quello che va considerato non è “quanto produrrò?” ma piuttosto “che impatto avrà quello che produco?” in quanto rifiuto inutilizzabile risulterà la mia attività?
E tutte le decisioni che derivano da questo assunto saranno decisioni evolutive e temporanee, fintanto che le innovazioni nel campo dei biopolimeri compostabili, e quindi sostenibili, e i sistemi di economia circolare non avranno un’evoluzione definitiva e soprattutto una visione univoca.
Per ora Reduction, Recovery, Re-use e Regeneration dovranno convivere in percorsi che includono nella progettazione l’utilizzo di plastiche di derivazione fossile insieme a plastiche di altra origine fin quando l’evoluzione della ricerca nel campo dei materiali non individuerà un nuovo polimero performante come la plastica, completamente riciclabile ma anche facilmente compostabile.
Questo vuol dire che le scelte progettuali di un packaging non saranno definitive: dovrà essere rivisto periodicamente in base alle innovazioni dei materiali e dei processi che saranno continue.
In questo senso la sostenibilità diventerà parte integrante degli scopi dei brand.
Che, destinati a diventare effimeri nel packaging, dovranno cercare la loro durevolezza nel sistema di valori che li circonda.