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War economy, un anno dopo

Quella che si configura ad un anno dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina è una situazione decisamente critica sia in termini di scacchiere geopolitico che di prospettive finanziarie/economiche. La guerra che sta sconvolgendo il cuore dell’Est Europa in primo piano; la conclamata escalation della tensione sullo Stretto di Taiwan tra Cina, supportata della Russia, e Stati Uniti; i fatti di Silicon Valley Bank e Credit Suisse che hanno scosso i mercati azionari e obbligazionari occidentali e asiatici aumentando l’incertezza, generano un quadro intricato.

18 aprile 2023 13 minuti
War economy, un anno dopo

Quella che si configura ad un anno dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina è una situazione decisamente critica sia in termini di scacchiere geopolitico che di prospettive finanziarie/economiche.

La guerra che sta sconvolgendo il cuore dell’Est Europa in primo piano; la conclamata escalation della tensione sullo Stretto di Taiwan tra Cina, supportata della Russia, e Stati Uniti; i fatti di Silicon Valley Bank e Credit Suisse che hanno scosso i mercati azionari e obbligazionari occidentali e asiatici aumentando l’incertezza, generano un quadro intricato. 

Partiamo con l’analisi degli effetti della guerra in Europa sull’economia mondiale. 

La guerra in Ucraina non è la causa principale del rallentamento dell’economia globale 2022 e tanto meno quella dell’outlook negativo per il 2023 ma ha comunque pesato sulle attività economiche, accelerando le pressioni inflazionistiche, specie in UE, e ostacolando la ripresa post-pandemia.

Ha contribuito alla volatilità e all’aumento dei prezzi delle materie prime e dell’energia, che a loro volta hanno esacerbato la carenza di cibo e alimentato l’inflazione in molte regioni del mondo.

Sebbene i prezzi dell’energia e dei cereali siano diminuiti rispetto ai picchi di metà 2022, permangono i rischi di una loro ripresa e l’Europa potrebbe ancora affrontare sfide per la sua sicurezza energetica.

Focalizzando lo sguardo su Ucraina e Russia, nel mese di febbraio di quest’anno il World Economic Situation and Prospects 2023 ha stimato alcune delle conseguenze economiche della guerra per le due regioni in causa.

Nel 2022 secondo i dati nazionali preliminari, l’economia ucraina ha subito pesanti perdite, contraendosi di oltre il 30%.

Dopo la fine del conflitto il Paese avrà bisogno di ingenti somme per la ricostruzione.

Il sostegno internazionale all’Ucraina da parte di vari partner è rimasto costante in questo periodo.

Volgendo lo sguardo alla Russia, le stime iniziali avevano previsto una contrazione della sua economia dal 10 al 15% nel 2022.

La contrazione reale è stata inferiore al 2,1% secondo i dati più recenti del Servizio Statistico Federale Russo. Questo perché i proventi delle esportazioni sono rimasti forti nonostante la guerra e le sanzioni. 

Le prospettive a breve termine per l’economia russa rimangono comunque incerte.

La guerra inoltre ha brutalmente messo in luce la dipendenza dell’Europa dal gas russo. 

I 27 hanno infatti cominciato ad orientarsi con successo verso fonti alternative come il gas naturale liquefatto trasportato dal mare e hanno istituito, non senza contrasti interni, il price cap sulle forniture russe.

Il calo dei prezzi del gas nella seconda parte dell’anno, incoraggiato da un inverno decisamente mite, è tra le principali cause per cui l’outlook dell’Eurozona non prevede recessione per l’anno in corso. 

Un discorso a parte riguarda comunque l’inflazione derivata proprio dal costo dell’energia, alla quale si aggiunge quella dei beni di consumo alimentari a sua volta generata dai costi energetici (e dal cambiamento climatico).

Come avevamo visto un anno fa nel primo scenario War Economy, l’origine dell’inflazione UE va collocata nel periodo dei lockdown del 2020.

Da un punto di vista tecnico, tuttavia, l’inflazione UE è ciò che si definisce un fenomeno importato, non derivante da cause endogene.

L’aumento dei costi energetici ha fatto da leva, prima, all’aumento dei prezzi del carrello della spesa e quindi, in terza battuta, al generale costo della vita.

La responsabilità della BCE è di aver notevolmente sottovalutato il fenomeno dell’inflazione, nelle sue fasi iniziali.

Gli errori di sottostima si sono concentrati tra il primo trimestre del 2021 ed il primo trimestre del 2022.

Al di là dell’Oceano Atlantico, il fenomeno inflattivo ha un’origine opposta rispetto a quella UE. Negli USA le cause sono infatti endogene.

Nel  biennio 2020-2021, i prezzi sono saliti in modo sistematico a causa delle politiche espansive fiscali e monetarie da parte di FED e Governo USA. 

Questi programmi hanno contribuito in modo decisivo a surriscaldare l’economia statunitense spingendola oltre la sua capacità produttiva provocando un aumento dei prezzi. 

Dato il quadro, oggi le mosse delle principali banche centrali del mondo vedono prevalere i falchi, cioè coloro che spingono per politiche monetarie restrittive.

FED, BCE e tutte le altre banche centrali delle principali economie stanno sistematicamente alzando i tassi di interesse (politiche monetarie restrittive) per smorzare la domanda e contenere l’inflazione.

I rapidi aumenti dei prezzi nei principali panieri non solo sono costosi per la società ma sono anche dannosi per una crescita economica stabile.

Ma c’è una buona notizia.

II trend dominante e ampiamente negativo dell’inflazione UE nel 2022, sta lentamente volgendo in senso opposto.

Secondo i dati preliminari condivisi i primi di marzo da Eurostat, a febbraio 23, l’inflazione in tutta Europa è scesa per il quarto mese consecutivo: dall’11,1% di ottobre 22, il massimo in 41 anni, all’8,5% a febbraio 2023.

Nuove tensioni sullo Stretto di Taiwan.

È da oltre un anno che si protrae l’escalation tra Cina e Stati Uniti.

L’isola di Taiwan ha enorme importanza strategica e peso specifico a livello mondiale dal momento che Taipei è leader mondiale nella produzione di semiconduttori avanzati.

Solo adesso stiamo uscendo a fatica da una crisi mondiale legata alla loro produzione, questa considerazione ci da una visione completa del quadro e ci lascia intuire l’enorme posta in gioco dal punto di vista strategico, tecnologico ed economico.
Una nota importante: in termini storici, si tratta della quarta crisi dello Stretto, dopo quelle, nell’ordine, del 1954-55, 1958, 1995-96, fine 2021 – oggi.

L’importanza strategica di Taiwan è frutto di una storia costruita nel corso degli ultimi 40 anni: molto del suo successo dipende dalla collaborazione congiunta nella supply chain tra Stati Uniti, UE e Giappone.

Senza il loro supporto, l’isola non sarebbe in grado di produrre i migliori semiconduttori del mondo.

Grazie a questo modello di cooperazione, Taipei è infatti in grado di servire le principali imprese americane di progettazione di circuiti integrati, completando così il cerchio.  

Le implicazioni pratiche dell’importanza di Taiwan riguardano svariati settori, dagli elettrodomestici alle automobili, dai super calcolatori fino ad arrivare agli sviluppi presenti e futuri di AI, robotica e 5G.

La tecnologia informatica ad alte prestazioni richiede chip semiconduttori sempre più avanzati.

La  Cina rivendica la legittimità dell’esercizio del suo potere su Taiwan da un punto di vista formale. Oltre ad aspirare al ruolo di potenza supertecnologica. 

Mentre gli USA da una parte riconoscono la Repubblica Popolare come unico legittimo stato cinese, dall’altra sembrano collidere con questo riconoscimento, infatti Washington sostiene militarmente Taipei dal 1979 circa.

Dal 2014 esiste un’alleanza “pragmatica” tra la Russia e la Cina.

Più specificamente da quando USA e UE annunciarono le proprie sanzioni alla Russia in virtù dell’annessione della Crimea ai territori della Federazione.

Come conseguenza, Russia e Cina siglarono uno storico accordo energetico da 400 mld USD, attraverso il colosso energetico russo Gazprom.

Oggi Xi Jinping è il leader mondiale di più alto profilo ad aver visitato la Russia dal momento della sua invasione dell’Ucraina.

L’evento ha ancor maggior rilievo se consideriamo che il leader cinese ha fatto ufficialmente visita al suo omologo russo, appena tre giorni dopo che lo Zar era stato citato per crimini di guerra dalla Corte penale internazionale.

È evidente che se i due Paesi portassero davvero l’alleanza ad un piano successivo, oltre la semplice diplomazia e l’economia, le tensioni con l’Occidente potrebbero subire una decisiva accelerata.

Al momento, comunque, il rischio reale è che i due Paesi possano rafforzarsi reciprocamente in un potente blocco per contrastare la NATO e gli Stati Uniti.

Sistemi bancari in crisi sistemica?

Partiamo dal caso di Silicon Valley Bank (SVB), dichiarata in fallimento il 10 marzo 2023.

In virtù dei suoi 212 mld USD di asset in gestione, la caduta di SVB si configura come il secondo più grande fallimento nella storia finanziaria americana, dopo quello di Lehman Brothers nel settembre 2008.

Silicon Valley Bank aveva investito i fondi dei suoi clienti in ciò che era considerato  più sicuro al mondo: ovvero i Treasury Bond (Titoli del Tesoro americano) con scadenza a 10 anni.

Come risultato, negli anni precedenti il 2023, SVB  aveva ricavato i propri margini attraverso il differenziale tra gli interessi derivanti dai Treasury ed i depositi stessi dei clienti, dispiegando la marginalità lungo una linea temporale lunga e sicura.

La crisi letale è stata scatenata da due motivi tanto semplici quanto decisivi: la totale assenza di diversificazione del rischio di investimento da parte di SVB (che in EU sarebbe impossibile per legge). E il progressivo aumento dei rendimenti dei Treasury Bond, come effetto dei rialzi dei tassi di interesse da parte della FED, che come sappiamo, servono a raffreddare l’economia e combattere l’inflazione.

Partiamo dal nodo centrale degli investitori. Essendo il denaro a loro disposizione più costoso a causa dei tassi più elevati, gli investitori hanno per definizione una minor propensione al rischio.

In secondo luogo, avere in portafoglio dei Bond statali con rendimenti più elevati, significa registrare delle perdite reali (se il titolo viene liquidato) o figurate (se il titolo rimane in portafoglio).  

Quindi SVB si è ritrovata ad avere in portafoglio asset in perdita, e contemporaneamente a dover fronteggiare l’avversione al rischio degli investitori che pesa sul comparto tecnologico.

A causa dei tassi di interesse, la raccolta fondi privata tramite Venture Capital stava diventando più costosa.

Per questo motivo, alcuni clienti della Silicon Valley Bank hanno iniziato a prelevare denaro per soddisfare le proprie esigenze di liquidità. E naturalmente Silicon Valley Bank ha cercato modi per soddisfare i prelievi dei suoi clienti. 

Per finanziare questi rimborsi, l’8 marzo la banca ha liquidato alcuni Treasury per un valore di 21 mld.

Ed ecco il problema: se al momento dell’emissione queste obbligazioni rendevano in media l’1,79%, a marzo 2023, il rendimento era schizzato a 3,9%.

Risultato? SVB ha dovuto riconoscere una perdita di 1,8 mld USD e si è quindi trovata nella condizione di doverla colmare attraverso un aumento di capitale che però è fallito il 9 marzo.

Con il fallimento nella raccolta fondi per l’aumento di capitale, il 10 marzo è stato decretato anche quello di Silicon Valley Bank.

Un pezzetto del fallimento di SVB come dicevamo in apertura è da ascrivere anche all’amministrazione Trump. Più precisamente alla degerulation del sistema bancario, attuata nel 2018. 

A quel tempo, l’allora presidente degli Stati Uniti annullò alcuni criteri che rendevano le banche USA più sicure.

I repubblicani, e alcuni democratici, votarono per alzare la soglia minima per le banche sottoposte agli stress test: quelle con meno di 250 miliardi di dollari di asset non erano più tenute a partecipare. 

Risultato? Molti grandi istituti di credito, tra cui la Silicon Valley Bank, furono liberati dal più rigoroso dei controlli normativi, disegnati per loro.

Tornando ai giorni nostri, l’amministrazione Biden si è mossa per proteggere tutti i depositi bancari, anche quelli che superavano il limite di 250,000  USD della Federal Deposit Insurance Corporation per ogni singolo conto, nel timore di contagio in tutto il settore bancario USA.

Il costo sostenuto dal governo  è stato di alcune centinaia di miliardi di dollari.

Contemporaneamente, in Europa, il 13 marzo, il colosso bancario inglese  HSBC acquisiva la divisione europea di Silicon Valley Bank, per una cifra simbolica.

Nonostante la caduta di SVB e di altre banche secondarie correlate, il tanto temuto rischio di contagio sistemico non c’è stato. 

Ha avuto inizio però un momento di forte volatilità dei listini di tutto il mondo.

A riprova di ciò, a seguito di un lunedì da incubo, già martedì 14 marzo, i mercati finanziari salutavano con entusiasmo la pubblicazione dei dati dell’inflazione USA per il mese di febbraio. 

La volatilità e l’incertezza possono però generare brutti scherzi.

È bastato un solo ulteriore giorno di frenetiche contrattazioni, che il maggiore azionista di una banca stavolta sistemica ed europea, Credit Suisse (CS), dichiarasse in una nota ufficiale che non avrebbe fornito ulteriore assistenza finanziaria alla banca. Era il 15 marzo.

Questo è bastato a mandare in tilt il prezzo delle azioni di CS oltre a scuotere i listini azionari e obbligazionari di tutto il mondo.

Non deve però sorprendere che CS fosse diventata l’obiettivo principale dei mercati. Da anni ormai la banca era coinvolta in una serie di scandali e polemiche gestionali. 

In un’analisi, Financial Times argomenta come Credit Suisse fosse diventata nel tempo l’anello più debole delle banche sistemiche globali, ubicate in Europa.

Un anello debole un po’ strano in verità, dal momento che disponeva di ingenti asset e molta liquidità. Inoltre, non era l’unica banca ad avere una bassa redditività e di certo non era l’unica ad aver affrontato scandali negli anni.

È un fatto però che tutti i nodi siano venuti al pettine in questo momento storico/congiunturale particolarmente delicato.

Con il giungere alla fine di quella turbolenta settimana, la situazione per CS era diventata tutt’altro che rosea.

Con il titolo in picchiata e il rischio concreto di una crisi sistemica, globale, a cavallo tra il 18/19 marzo la Banca Nazionale Svizzera (BNS) non ha avuto altra scelta se non aprire una linea di credito da 100 mld CHF a beneficio dell’altro grande gigante bancario elvetico, UBS.

Così facendo, domenica 19 marzo si è formalizzata la fusione tra i due eterni rivali per la quale UBS ha acquisito Credit Suisse per la somma di 3 mld CHF.

Si è trattata della soluzione più logica e semplice in quel momento.

La prontezza delle autorità elvetiche ha scongiurato una crisi che avrebbe coinvolto tanto i mercati finanziari quanto l’economia di tutto il mondo. 

L’operazione non è tuttavia scevra di strascichi potenzialmente pericolosi.

Oltre all’imponente ondata di licenziamenti all’orizzonte e per la quale il governo della Confederazione si è attivata per limitare i danni, c’è infatti un’altra questione prettamente finanziaria che rimane sospesa.

Con la fusione tra UBS e Credit Suisse si apre una voragine del valore di 16 mld CHF, in bond legati a CS e azzerati proprio in virtù del “merge”. Chi ha questi bond in portafoglio è destinato a soffrire. 

L’autorità di regolamentazione elvetica, Finma, ha utilizzato un’ordinanza di emergenza per azzerare le obbligazioni, anche se ha orchestrato un accordo in cui UBS pagherà 3,25 mld USD agli azionisti CS.

Inutile a dirsi che saranno numerosi fondi di investimento a scontare delle perdite.

Secondo Bloomberg, uno in particolare, Pimco (tra i più grandi fondi obbligazionari al mondo), sarebbe il maggiore detentore dei titoli azzerati con il salvataggio dell’istituto. 

Secondo le stime, il fondo registrerà una perdita di 807 mln USD.

Fondendosi, UBS e Credit Suisse stanno dando vita ad un nuovo supercolosso il cui valore sarà 2 volte il PIL della Confederazione ed avrà in gestione asset per 6 volte il PIL.

Nel 2022 il valore del prodotto interno lordo svizzero era di 731 mld CHF.

Il vero punto di riflessione non è più “essere troppo grandi per fallire”, ma “quali organi di controllo nazionali e soprattutto internazionali potranno regolamentare questa superbanca?”